L'ombra creativa


"Dice la verità chi dice ombra", afferma il poeta Paul Celan. E nel celebre dialogo fra il viandante e la sua ombra, il filosofo Friederich Nietzsche fa dire a quest'ultima: "Quando l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo".

Che è come dire che l'ombra non può fare a meno della luce. E viceversa.

Può esistere luce senza ombra?
In natura no. In fotografia sì.

Il fotografo, signore della luce, può, volendo, circondare di luce il suo soggetto, eliminare ogni scarto di tonalità, uniformare in un piatto e monotono indivenire ogni linea, ogni figura, ma in questo modo finirebbe di fatto per negare l'essenza stessa del creare per immagini. Che senso avrebbe un'immagine in cui tutto appare delineato, chiaro, definito in ogni suo particolare? Quale soggetto chiederebbe di essere fotografato così? Giusto una dentiera o un circuito stampato, la pagina di un manoscritto (ma solo se non si voglia dare corporeità al supporto cartaceo, che è tutto fuorché bidimensionale).

La luce piatta e avvolgente elimina le imperfezioni del volto delle modelle rendendole simili alla Barbie. Donne efebiche e lontane che non parlano, non dicono, non eccitano, asettiche illustrazioni per riviste di moda, svuotate da qualsivoglia connotazione sessuale e ridotte a icone di una bellezza cartacea e rarefatta che bellezza non è più, almeno agli occhi di un maschio adulto in buona salute fisica e mentale. Ma questo è ciò che chiede un mercato ormai più standardizzato e insipido di un pranzo da McDonald's.
Per questo non sarò mai un buon fotografo di moda. Perché le stangone anoressiche illuminate da due bank frontali che rivelano le pieghe dell'abito non riescono a stimolarmi fotograficamente. Quando io fotografo una donna voglio una donna vera, di quelle con cui si beve il caffè alla mattina, quelle che ti volti per strada a guardarle, quelle con cui parli e litighi, vai in vacanza e fai l'amore.

La luce piena e frontale ammazza il paesaggio, lo inonda di azzurro e di foschia, lo appiattisce contro un cielo innaturalmente e insopportabilmente azzurro. Così piace agli editori di poster e cartoline, come quello che – anni or sono – rifiutò le mie immagini in quanto troppo "drammatiche" e poco gradite a un pubblico che chiedeva il fiorellino in primo piano, la casetta sul piano intermedio e la montagna innevata sullo sfondo, "ma mi raccomando, cielo azzurro e senza nuvole che mettono ansia!".

L'ombra, al contrario, crea un rapporto dialettico all'interno della composizione, da un senso e un significato all'immagine, si rapporta con la luce e la trasforma in parola.
Non esiste musica senza silenzio ed anzi è proprio grazie alle pause che la composizione acquista il giusto respiro. Del resto che cosa è il ritmo (il più primitivo e fondante elemento della musica) se non uno scandirsi regolare di pieni e di vuoti?
Così anche l'immagine respira e canta quando i toni di grigio si alternano e il soggetto emerge dall'oscurità.
Generato dal buio come avviene di ogni cosa vivente il soggetto principale sboccia alla luce e trionfa delle sue forme e dei suoi volumi.
L'ombra incornicia e allontana, scolpisce e modella, ci costringe a percepire come tridimensionale un oggetto che l'esperienza e il ragionamento ci dicono piatto, gioca con lo spazio euclideo e inganna le nostre sensazioni che - del resto - chiedono con prepotenza di essere ingannate.

E nella misura in cui sapremo essere avari con la luce, le forme e i colori sembreranno paradossalmente risplendere, esaltati dal confronto con l'oscurità.
Eppure l'ombra è per molti fotografi un ostacolo, un inciampo, un evento da evitare. E quando si verifica bisogna illuminarla, schiarirla, renderne leggibili tutti i particolari, come se si fotografasse una protesi chirurgica anziché un paesaggio, un preparato anatomico in luogo di una modella.
"Non mi piace la Velvia perché tappa le ombre", è l'affermazione tranchante di amatori e professionisti. Vera, peraltro, ma solo per chi non ha saputo capire fino in fondo il comportamento di questa splendida - anche se difficile - emulsione. Prendete una Velvia, sottoesponetela di un terzo di stop come i manuali per dilettanti ci hanno insegnato a fare quando si lavora con le diapositive, e otterrete immagini inguardabili e soprattutto instampabili. Decidere se saturare oppure no in fase di ripresa non è un processo automatico, ma funzione del soggetto e delle sue caratteristiche. Insegnare che con le diapositive o con il digitale si lavora in sottoesposizione per evitare di bruciare le alte luci è una sciocchezza, se presa in senso assoluto e prescrittivo.
Prima di prendere una decisione del genere (prima di prendere qualunque decisione) bisogna considerare il soggetto (o meglio la scena inquadrata) e valutarne i rapporti tonali. Capire in che zona cadranno le ombre se si decide di porre il grigio medio in corrispondenza di questo o quell'elemento, misurare (col cervello, prima che con l'esposimetro) ogni singola area e imparare a coglierne le differenze in termini di luminanza. Anche nell'epoca del digitale e di Photoshop, che permette di correggere a posteriori l'esposizione, una buona fotografia nasce prima di tutto in fase di ripresa, e l'applicazione del sistema zonale rappresenta lo strumento più sicuro per ottenere un'immagine che - nei suoi rapporti tonali - coincida senza incertezze con l'immagine vista, progettata e "pensata" (cioè previsualizzata).
Solo allora si deciderà se vale la pena rendere perfettamente leggibili tutti i particolari in ombra o se non sia meglio consentire alla luce di dialogare con la non-luce, lasciando che lo spettatore immagini ciò che non può vedere, e colga il segreto respiro della composizione dal suo alternarsi di pieni e di vuoti, di musica e di silenzio.

L'ombra in fotografia non è solo oscurità, ma è anche differenza di toni fra aree diverse. Mi riferisco soprattutto al fenomeno della vignettatura, quell'oscuramento delle aree marginali del fotogramma tanto aborrito e temuto dai fotografi, al punto che l'utilità di correzione della vignettatura è una delle più richieste da chi utilizza software per l'elaborazione del RAW.
Eppure i migliori stampatori insegnano che quando si lavora in camera oscura è buona norma concludere il processo di stampa mascherando leggermente i bordi, in modo da "chiudere" l'immagine e concentrare l'attenzione sulla sua parte centrale. Questo incornicia la scena ed evita che questa "scappi" oltre i bordi. Perché allora non usare anche la vignettatura come elemento creativo?

"In principio è sempre buio" sussurra l'imperatrice di Fantàsia dopo che Bastian ha varcato le soglie del suo regno distrutto, unico terrestre in grado di rigenerarlo.
E dal buio scaturiscono forme e figure, colori e testure, che col buio si rapportano e si confrontano, traendo da esso luce e vigore comunicativo.